- 1486
- Rassegna Stampa
- 16 Lug 2000
di Ilaria Daolio.
Con il nuovo lavoro discografico, di cui il baritono Luca Casagrande è ideatore, produttore e interprete, siamo in pieno clima romantico.
Su Gaetano Donizetti (Bergamo 1797- ivi 1848) si è detto e scritto moltissimo. Non è certo il caso di ricordare, qui, quale sia la statura artistica di uno dei principali artefici e protagonisti della grande stagione romantica italiana ed europea. E’ vero che molte sono state e sono le controversie sul “valore” di una carriera dagli inizi incerti e difficili e dai trionfi degli anni seguenti al 1830: ancor oggi siamo costretti a sorbirci il critico di turno, per il quale Donizetti è solo un “minore”. Noi sosteniamo non solo che egli, Donizetti, non lo sia affatto – e mettiamo apertamente in dubbio il grado di sensibilità estetica e d’intelligenza “tout court” di chi afferma assurdità di tal genere – ma siamo convinti che, per quanto se ne sia scritto e parlato, se ne discuta, lo si sia commemorato nel duecentesimo anniversario della nascita e nel centocinquantesimo della morte, di Donizetti non si sappia ancora a sufficienza. Quanti tra noi hanno potuto assistere in teatro a opere quali “Torquato Tasso” o “Maria de Rudenz”? Quanto spesso appaiono in cartellone nei teatri italiani, con direttori ed interpreti adeguati, e in edizione integrale, capolavori come “Anna Bolena” o “Lucia di Lammermoor”, che tutto sono, tranne che opere sconosciute, o “Maria di Rohan”, ultima fatica del bergamasco, che apre le porte a novità sostanziali nella concezione del melodramma romantico italiano e anticipa istanze, che saranno poi di Verdi? Quanti di noi conoscono la musica strumentale di Donizetti, quanti gli “Inni” e le “Cantate”, quanti le sue quasi trecento arie da camera? E quanti sanno per quale cantante, o per quale teatro e per quale pubblico Donizetti compose, di volta in volta? Qual’ era il suo rapporto con i librettisti dei suoi lavori teatrali e chi erano questi autori, che tanto contribuirono al formarsi di un gusto? Cosa ci dicono i nomi di Giorgio Ronconi, Paul Barroilhet, Domenico Cosselli, Fanny Tacchinardi-Persiani, Tadolini, Frezzolini, Ronzi-de Begnis, Nozzari, Tamburini… A noi che è già un miracolo, se ricordiamo vagamente i nomi della Pasta, della Grisi e della Malibran … ? In definitiva, chi era Donizetti e qual’ era il clima storico, culturale e musicale, in cui si mosse per più di trent’anni uno dei grandi musicisti romantici italiani? Temiamo che eventuali risposte a queste domande, che dovrebbero essere retoriche, ma che, drammaticamente, non lo sono affatto, potrebbero essere sconfortanti.
Ha, dunque, fatto bene Casagrande a incentrare proprio su Gaetano Donizetti quest’ultima sua fatica discografica, preceduta da un breve ciclo di concerti, uno solo dei quali in Italia, dedicati per l’appunto al bergamasco. Ha fatto bene, perché ha proposto, quattro bei valzer per pianoforte solo (ci risulta ne esista una sola altra incisione, pubblicata da una casa discografica di Treviso, che abbiamo già nominato) che si giovano del pianismo raffinato, intelligente ed elegante della giovane Jessica Nardon. Questa pianista, che, al solito, in un’età di rumorosi strimpellatori, ha incontrato le sue belle difficoltà – insegnanti incapaci o mediocri, troppo occupati dalla loro carriera, così bisognosa del sostegno finanziario del contribuente, per potersi occupare dell’educazione di un talento autentico, per potersi anche solo accorgere della sua esistenza. Anche qui eviteremo di fare nomi, tanto gli acquirenti del CD se li ritroveranno nel libretto – sa distillare i suoni goccia a goccia, sa dosare i colori, è in possesso di un’ infallibile sensibilità stilistica. E, come molti grandi, se ne sta un po’ troppo defilata. Male, perché questa pianista darebbe del filo da torcere alla maggioranza dei suoi colleghi. Deve solo superare un certo grado di durezza che avvertiamo in certi passaggi, nei valzer, e che non sappiamo se attribuire alla presa sonora o al tocco dell’artista.
Ai valzer seguono sei arie per canto e pianoforte, non a torto raggruppate sotto il titolo “Canzoni d’amore”. E, appunto, come ottocentesche canzoni “da salon” sono interpretate. Casagrande effettua un’operazione, a suo modo, audace: partendo dal cosiddetto “spirito da salotto” (di cui, peraltro, non tutti i cantanti sono in possesso), riesce ad immettere nel “divertissement” un che di inquieto e inquietante, che attiene strettamente alla sua natura di interprete tragico e un autentico accento di nobiltà, derivante dalla sua natura di interprete aulico. Riesce ad essere, quindi, autenticamente romantico e, allo stesso tempo, a conferire senso e significato attuali a queste sei brevi composizioni vocali da camera. Precisissimo nel rispettare lo stile, impegnato in un continuo dialogo con il pianoforte, acuto nel leggere tra le righe, il fatto che la sua voce, considerata in sé, piaccia o no, ci è del tutto indifferente, dal momento che il punto non è esattamente questo. Il punto è che Casagrande non ha mai intenzioni interpretative eccessive, che non si vuole mai impadronire della linea vocale, ma la accarezza, e proprio in questo consistono l’aristocraticità e la modernità del suo canto.
I tre “bis” operistici, tratti da concerti tedeschi, e che concludono la registrazione, ci mettono difronte a brani difficili ed estremamente interessanti. Destinate a Giorgio Ronconi (Milano 1810-Madrid 1890) – baritono ottocentesco celeberrimo, all’epoca, di voce tenoreggiante, mai giudicata bella dai contemporanei, ma sempre di inarrivabile efficacia sul piano drammatico. Il baritono preferito da Giuseppe Verdi, che lo poté avere solo raramente come interprete delle sue prime, ma al quale s’ispirò per molti dei suoi personaggi baritonali – la “Grande scena ed aria” dal terzo atto del “Torquato Tasso”, “Qual son…?…Perché dell’aure in sen”, la bellissima romanza di Corrado Waldorf, “Ah, non avea più lagrime”, dal primo atto di “Maria de Rudenz” e la tragica scena del Duca di Chevreuse, “Son cifre di Riccardo…”, seguita dalla patetica aria “Bella e di sol vestita”, dal terzo atto di “Maria di Rohan” esigono la capacità di cantare in maniera tesa, tagliente ed incisiva, ma anche soave, e la tecnica atta a sostenere una tessitura acutissima, praticamente tenorile. Anche in questi casi la bellezza della voce si identifica totalmente e inevitabilmente con la resa drammatica, le qualità coloristiche e dinamiche. Casagrande ha voluto proporre, qui, con l’alternarsi di una suadente dolcezza ai fremiti nevrotici che percorrono a tratti il suo canto, una vocalità “ibrida”, frutto di una lettura molto consapevole delle partiture, di una minuziosa ricerca sul suono, effettuata tenendo conto innanzitutto di ciò che si sa della voce di Ronconi, ma anche e soprattutto di ciò che da questa voce lo stesso Donizetti esigeva. Nessun baritono, che voglia “fare il baritono”, oggi, riuscirebbe a rendere giustizia ai ruoli scritti per Ronconi. Pensiamo con imbarazzo allo Chevreuse di Ettore Kim (edizioni “Nightingale”, 1996, con Edita Gruberova nel ruolo di Maria e Boncompagni sul podio) o all’allestimento veneziano di “Maria di Rohan”, con la Devinu a disimpegnare il ruolo eponimo, e un monocorde, piatto Duca, del cui interprete non ricordiamo il nome, e di quest’operazione di rimozione non ci sentiamo, in tutta onestà, di fare ammenda.
Molto accattivante la veste grafica, in rosso scuro a caratteri dorati.
In definitiva, un disco indubbiamente tra i migliori di Luca Casagrande, e che ci rivela il baritono impegnato a scoprire nuovi orizzonti anche nell’ambito di un repertorio erroneamente dato per noto.
Ilaria Prof. Daolio
Docente di Letteratura e Storia del Teatro musicale
Istituto Monteceneri
Milano.
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