- 2015
- Rassegna Stampa
- 10 Mar 2003
Milano, Febbraio 2003 – Seconda prova discografica sulla mélodie francese otto-novecentesca, ideata, prodotta e interpretata da Luca Casagrande.
Stavolta il baritono è affiancato da due voci femminili, il soprano Maria Carla Curìa e il mezzosoprano Loretta Liberato.
Albert Roussel (1869-1937) occupa un posto singolare tra i compositori francesi della sua epoca: a cavallo tra simbolismo e neo-classicismo, alterna pagine di sontuoso esotismo ad asciutti, crudi, spigolosi episodi melodico-armonici, che spesso sconfinano apertamente e intenzionalmente nel grotesque. Capolavori, in ogni caso.
Georges Bizet (1838-1875) è un compositore altrettanto singolare, mosso da problematiche nettamente novecentesche, che lo pongono totalmente al di fuori della sua epoca.
Entrambi, compositori poco e mal amati – se si eccettua il successo quasi postumo di Carmen, per Bizet – che, in questo Cd, sono proposti con freschezza e franchezza.
Gli interpreti vocali sono davvero di straordinaria abilità nel riuscire a rendere il senso completo di mélodies caratterizzate da una resa stilistica estrema e difficile.
Maria Carla Curìa, soprano, dimostra anche in questo suo lavoro discografico, il terzo, doti che, ormai, le si possono riconoscere senza riserve: costante sforzo di comprensione profonda delle parti, e quindi espressività attenta e calibrata, tecnica solida, che, semmai, la spinge ad un’emissione un pochino troppo ortodossa, per i nostri gusti (potrebbe osare di più, intendiamo), bellissimo timbro e buone capacità coloristiche, dinamiche, agogiche, intonazione praticamente ineccepibile, voce che tende vieppiù ad una crescente lirica pastosità, nonostante siano ancora percepibili le trasparenze e le levità di una natura di soprano leggero, che le permettono, tra l’altro, il sicuro dominio del registro acuto e sopracuto, perlomeno fino al Re5. Per tutte queste doti le si perdoneranno volentieri una pronuncia francese da perfezionare e una dizione non sempre chiarissima. Perfetta, in ogni caso, Curìa è nei Deux idylles di Roussel, Le kèrioklèpte e Pan aimait Ekhô, e molto convincente nei quattro Poèmes chinois, sempre di Roussel, che interpreta, raggiungendo vertici di cupa intensità in Réponse d’une épouse sage; è divertentissima in Le grillon, piacevole scherzo con cui Bizet chiude il suo cycle Feuilles d’album.
Approfittiamo di questa nuova registrazione di Curìa per ricordare brevemente le sue due prove discografiche precedenti, entrambe di notevole interesse. In Agostino Steffani (1654-1728). Cantate a una e due voci. Parte II, ideato e prodotto da Luca Casagrande e pubblicato nel 2002, con lo Scarlatti Camera Ensemble – CD, questo, che è stato definito dalla critica francese “il miglior lavoro dello Scarlatti Camera Ensemble” (FranceMusique), e ha riscosso unanimi consensi presso la critica e il pubblico spagnoli e tedeschi. Gli italiani, al solito, si fanno attendere – Curìa, dicevamo, offre una rimarchevole prova come sciolta interprete del barocco più evoluto, sia come solista, nella brillante Cantata Guardati ó core dal Dio bambin, sia nel patetico, struggente duetto Io mi parto, ó cara vita, accanto a Luca Casagrande in veste di tenore baritonale, che riporta infallibilmente a brumosi paesaggi sentimentali secenteschi, sia nei Duetti virtuosistici accanto a Loretta Liberato, qui splendido contralto di scuro e sonoro velluto vocale.
In Cantate a voce sola per Soprano e continuo, di Alessandro Scarlatti, con il Trio Alessandro Scarlatti, per l’appunto, CD ideato e prodotto da Luca Casagrande, nel 2001, Curìa si mostra, agli esordi discografici, già interprete di vaglia, di notevoli pathos, intensità e musicalità. Si ascoltino la sua Didone abbandonata o la versione inhumana della Cantata Andate, o miei sospiri.
Una curiosità: questo CD è stato presentato come materia d’esame alla Facoltà di Lettere, Istituto di Storia della Musica, dell’Università di Parma. In entrambi i CD da notare la splendida analisi musicale dei brani di Filippo E. Ravizza. Questa la Curìa “barocca”, per intenderci, ma dobbiamo tener conto di alcune fortunate realizzazioni di difficilissimi personaggi del teatro scarlattiano (Laodice in Mitridate Eupatore, Griselda nel ruolo eponimo), steffaniano (Niobe, in Niobe Regina di Tebe, la sua realizzazione migliore di un personaggio del teatro barocco) e händeliano (Cleopatra, in Giulio Cesare in Egitto) ma dobbiamo ricordare che il soprano cosentino è stata un’incantevole Lakmé (Délibes) e una commovente Lia (L’enfant prodigue di Debussy), per attenerci al repertorio francese, e che è in grado di tratteggiare una nutrita galleria d’eroine romantiche italiane, soprani lirici o drammatici d’agilità, tra cui spiccano Giovanna in Giovanna d’Arco ed Elvira in Ernani, di Giuseppe Verdi, o Alaide ne La straniera di Vincenzo Bellini.
Per tornare al CD di mélodies di Roussel e Bizet, il punto d’incandescenza di questo lavoro discografico si raggiunge con le Odes anacréontiques di Roussel, destinate a voce di baritono, peraltro molto acuto e per nulla italiano. Composizioni, queste, che sintetizzano momenti di rara intensità lirica, per quanto sempre sottesa d’ironia e cinismo, e pagine di grotesque fiammeggiante. Anacreonte, superbamente tradotto in francese da Leconte de Lisle, richiede, nelle pagine di Roussel che lo si declami con voce quasi sempre spiegata e il ricorso a colori vividi, netti, repentini, tra loro contrastanti. Luca Casagrande, per l’appunto, declama in maniera stilisticamente esemplare queste traduzioni francesi dal greco vivo e sarcastico d’Anacreonte, con una voce più rotonda, largamente vibrante e sonora del solito, decisamente estranea sia all’estetica dello sfumato, cui ha fatto ricorso nell’interpretare le delicate liriche simboliste di Verlaine e quelle parnassiane di Louÿs musicate da Debussy, sia a quella del sublime, tentata per la prima volta nella storia del canto francese ottocentesco da Berlioz, nelle sue Nuits d’été, entrambe raccolte da Casagrande in un lavoro discografico del 2002.
E, qui, apriamo un inciso: la voce di Casagrande è di natura chiara ed estesa (più di due ottave). Anni di studi ed esperienze teatrali e concertistiche internazionali d’avanguardia hanno portato il cantante ad essere sempre meno tale e sempre più artista. Cioè ad esplorare tutte, ed insisto su questo tutte, le possibilità dei suoi mezzi vocali. Casagrande non ha mai fatto il minimo caso alla borghese necessità di una pretesa piacevolezza nel canto, che non deve distrarre e divertire sempre e comunque, né deve obbligatoriamente incantare: può anche inquietare, disturbare, ma, soprattutto, deve indurre a pensare. Casagrande ha sempre e solo badato ad essere il più possibile espressivo. Ovviamente, per queste sue scelte estetiche, ed etiche, si è alienato le simpatie degl’ignoranti, dei pigri, degli stupidi e dei superficiali. Tutti giustificabili, per carità: si tratta di qualità umane, benché del tutto indegne di essere prese anche per un solo attimo in seria considerazione. Tuttavia, desideriamo chiarire il concetto una volta per tutte: le scelte estetiche di Luca Casagrande hanno un alto valore artistico – compreso perfettamente da chi ne abbia i mezzi sensibili, intuitivi, razionali, intellettuali, o da chi si sforzi di mettere in moto i propri neuroni – di carattere sostanzialmente avveniristico, sostenute, oltre che da una formidabile sensibilità musicale, da un uso diabolico della tecnica vocale, soprattutto di quella parte della tecnica attinente ai colori vocali. Citiamo Emanuel Garcìa jr.: “La voce umana va soggetta all’azione INEVITABILE de’ colori (timbres) nella stessa guisa ch’è sottoposta alla differenza dei registri. Chiamiam colore quel carattere proprio e variabile all’infinito che ogni registro, ogni suono può assumere fatta astrazione dall’intensità”. Ora, ribadiamo, Casagrande ha voce naturalmente chiara, e su questa base egli lavora per ottenere i risultati timbrici e stilistici che, di volta in volta, gli necessitano. I due colori principali della voce, dice ancora Garcìa, sono il chiaro e l’oscuro. “Indipendentemente però da questi c’è un gran numero d’altri; i quali, perché si possano produrre, prendono gli uni dal color chiaro, gli altri dallo scuro quanto hanno d’essenziale nel loro meccanismo. Si vede diffatti che la voce può assumere dei caratteri svariatissimi […]”. Continua Garcìa: “Il color chiaro comunica al registro di petto un carattere metallico e brillante […]. Quando l’apparecchio vocale si colloca nelle condizioni che producono il color chiaro la voce può ricevere un carattere nasale […]”, in tutto o in parte. Ed ecco ritratta con precisione millimetrica una delle caratteristiche della vocalità di Luca Casagrande. Vocalità cui sono state mosse critiche per saper e voler passare con disinvoltura dagli infiniti caratteri del colore chiaro suo proprio, al colore rotondo, pure trattato da Garcìa, a quello oscuro (ma con grande cautela: questo colore dà volume, non forza o metallo, ed esageratamente caricato, come oggi fa la maggior parte dei baritoni, e si aspetta buona parte del pubblico di stampo tradizionalista, “vela i suoni, li soffoca, li rende rauchi e sordi” – E. Garcìa jr.). Il paradosso dovrebbe essere evidente, ed è ironico che si trovi strano, o particolare, che Luca Casagrande si rifaccia ad una tradizione secolare per tentare di svecchiare l’arte del canto, e risulti fastidioso, che metta in discussione le cattive tradizioni novecentesche, in primis il canto del tipo baritonale alla Titta Ruffo. Non solo, ma le presunte inflessioni nasali, che possono suonare tali ma che non lo sono per niente, perché la colonna d’aria non va nelle fosse nasali, ma è proiettata nei seni paranasali, in altre parole in maschera (non si tratta, insomma, della gnagnera tipica di molti tenori e di un buon numero di baritoni, ma delle inflessioni potentemente immascherate di un Gerard Huesch o di un Heinrich Schlusnus), non sono considerate da Casagrande, e da chi la pensa come lui come un difetto da cui guardarsi con orrore, ma come una risorsa espressiva e tecnica da sfruttare. Come un mezzo per dare sonorità al colore chiaro senza caricarlo eccessivamente, soprattutto in zona acuta, in cui risulterebbe “stridulo e gridante” (E. Garcìa jr.). Se queste non sono perizia tecnica superiore e aperta sfida ai luoghi comuni su come si dovrebbe cantare, non saprei com’altro definirle. In ogni caso, nelle Odes anacréontiques, Casagrande compie veri virtuosismi, cantando spesso in tessitura molto acuta e sostenendo per diverse battute note estreme per un baritono: Fa3, Fa#3 e Sol3. Intensa, lirica, anche l’interpretazione dei due Poèmes chinois, Amoureux séparés e Des fleurs font une broderie. La dizione è esemplare, e la pronuncia francese di Casagrande continua a perfezionarsi: qui egli introduce anche qualche vezzo arcaico, come la pronuncia antica della parola lys, giglio.
Loretta Liberato si rivela, qui, camerista d’eccezione. Il mezzosoprano, di voce estesissima (quasi tre ottave, nei suoi momenti migliori), straordinariamente omogenea e sonora, morbidissima, ferma, oltre che di possibilità dinamiche e coloristiche ragguardevolissime, in questo CD si cimenta con tre patetici brani di Bizet, raccolti in Feuilles d’album: À une fleur, Sonnet e Rose d’amour, tutti di una bellezza tale, che, da sola, varrebbe quest’intera registrazione. L’interpretazione che ne dà Liberato è un piccolo capolavoro. Raramente ci è stato dato di sentire un canto tanto teneramente charmant e di tanto intelligente musicalità. La voce si estenua in pianissimi trasparenti, sussurrati, in sospiri dolenti, per poi passare a frasi piene, in cui risuona calda e vibrante. La pronuncia francese è quasi sempre molto buona e la dizione comprensibilissima. Brevemente, ricordiamo anche la versatilità di questa cantatrice, che, se per natura è l’ideale interprete di molti ruoli händeliani per mezzosoprano, anche e soprattutto en travesti, ad esempio Sesto in Giulio Cesare in Egitto o Arsamene in Serse, riesce a muoversi molto bene anche in ruoli mozartiani, e dobbiamo citare oltre al suo Cherubino e a Dorabella, un’insolita, efficacissima Zerlina, e un grande Sesto ne La clemenza di Tito; ricordiamo che Liberato ha registrato buona parte dei divertentissimi Duetti Buffi di Giovanni Battista Martini, cimentandosi, al fianco di Casagrande, in parti difficilissime per mezzosoprano acuto; e poi, per tornare al barocco, è contralto in Vivaldi e Steffani (esemplari la Semiamira, di Liberato in Alarico di Steffani e le due registrazioni discografiche dedicate a Steffani, nelle quali spiccano le Cantate a due Sia maledetto Amor, Tengo per infalllibile e quella a voce sola Il più felice e sfortunato amante), e di nuovo mezzosoprano in Scarlatti (Stratonica, in Mitridate Eupatore e Costanza in Griselda); ma che è anche un’interprete rossiniana di qualità notevole e un’interessantissima, romantica Imogene, nella versione per mezzosoprano de Il pirata, che Bellini compose per Giuditta Grisi, nel 1829.
Molto accurata, attenta, precisa e, al solito, interessante quanto mai, ed estranea alla quasi totalità dei libretti di CD, l’analisi musicale, brano per brano, realizzata da Filippo E. Ravizza, musicista e musicologo di raffinata, aristocratica penna.
Centrata la scelta, per la copertina, del bellissimo dipinto di Salvador Dalì, quell’Archological’s reminiscence of Millet’s Angelus, finito, chissà come, a St. Petersburg, in Florida.
Ilaria Daolio
Storia e letteratura del teatro musicale e
Direzione Istituto Monteceneri
Milano.
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