- 1847
- Rassegna Stampa
- 12 Mag 2004
Milano, maggio 2004. Esaminando i manoscritti delle cantate di Antonio Cesti (Arezzo,1623-Roma, 1669) si affaccia alla mente un primo, immediato pensiero: improponibili. Per rendere ascoltabili al giorno d’oggi questi abbozzi dall’apparenza scorretta e noiosa, e rendere così giustizia alla ricchezza e all’originalià dello “stile grazioso” di Cesti e ai suoi “meravigliosi” poeti (qui Giovanni Filippo Apolloni e Sebastiano Baldini, ma non dimentichiamo nomi come quello di Salvator Rosa) c’è bisogno di artisti che sappiano creativamente utilizzare le pratiche della variazione e dell’improvvisazione. Siamo in pieno Barocco, età di patetismi e virtuosismi, di linguaggio metaforico, arditamente allegorico, iperbolico, fiorito ed immaginoso. La “poetica della meraviglia”. Il presente lavoro discografico, prodotto e interpretato da Luca Casagrande, ha centrato l’obiettivo di restituirci, attraverso un lavoro di restauro attento, accurato, sensibile, un polittico dalle tinte smaglianti e dai riflessi vividi, sottratti alle cortine fumose depositatevi dal tempo e dall’incuria. E che questo accada attraverso il solo uso di clavicembalo e voce, ha in sé dello stupefacente.
Questo cd appartiene ad una “terza fase”, per così dire, dell’iter discografico di Luca Casagrande. Escluso l’album d’esordio – in cui Casagrande si proponeva interprete di monodie d’inizio Seicento, come tenore di tipo baritonale, cercando, in via ipotetica, di ricalcare i modi di un Rasi, un Peri e forse un Caccini – la “prima fase” è caratterizzata da una vocalità rotonda, piena, chiaramente baritonale, ma controllata, e quanto a volume, e sul piano espressivo, e da una cura particolare per l’intonazione e la dizione. Musicalmente, da un gusto per l’accompagnamento essenziale, scarno. Il contributo alla conoscenza d’inedite cantate, in chiave di basso, con basso continuo e violini, e delle tre sonate per due violoncelli, di Alessandro Scarlatti, rimane uno dei migliori lavori in disco di Casagrande. Per far discutere gli “addetti ai lavori”. Una “seconda fase”, compresa grossomodo tra il 1999 e il 2002, è caratterizzata dalla collaborazione con altri cantanti e ci consegna il ritratto di un cantante più occupato a mettere in luce le sue doti di musicalità e senso dello stile, che a sfoggiare sonorità baritonali: la voce è leggera, capace di suggestive trasparenze e di notevoli raffinatezze, perciò destinata a non incontrare i gusti dei “vociazzari”. Esemplari, in questo senso, i lavori sulle cantate a una e due voci di Agostino Steffani e il recital donizettiano, con la riproposizione, in entrambi i casi, del tipo del tenore baritonale d’epoca barocca (vale a dire, grossomodo, del baritono) e del baritono d’età protoromantica. Le atmosfere musicali sono sempre rarefatte. Nella presente “terza fase”, apertasi da poco – a parte il raffinatissimo esercizio in “stile sublime” (in parole povere, di canto “a fior di labbro”) su mélodies di Hector Berlioz, versi di Théophile Gautier, e Claude Debussy, versi di Paul Verlaine e Pierre Louÿs), leggermente sofisticato, forse, e corredato da un pianismo ineccepibile tecnicamente, ma freddo e per nulla attento alle ragioni della voce – il timbro di Casagrande si scurisce, si fa schiettamente baritonale, la voce è più ampia e risonante, il vibrato più largo, le note più potentemente immascherate che in precedenza. Il canto si fa vividamente drammatico, o assume tinte corrusche, tragiche. Fa capolino il grotesque. Di conseguenza, anche l’atmosfera si fa tagliente, traboccante di riferimenti letterari e teatrali, e sempre evocativa dei climi culturali, in cui si sono mossi gli autori e i compositori trattati (Albert Roussel che musica i lirici greci tradotti da Leconte de Lisle, tra tutti). I CD sono corredati dagli unici libretti davvero esaustivi della gran parte delle produzioni discografiche, italiane e no, ospitando veri e propri saggi musicologici di grande interesse e per il profano, e per lo studioso. A questa “terza fase” appartiene il presente lavoro sulle cantate di Antonio Cesti. Insomma, il disco, per Casagrande, è palesemente terreno di sperimentazione, un vero e proprio “work in progress”. E il baritono è un autentico “camaleonte vocale”, come già acutamente ha rilevato la critica d’oltralpe, tedesca in particolare.
Nel CD su Cesti il colore, complessivamente, con le dovute distinzioni tra cantata e cantata, è tendenzialmente “sombre”, l’atmosfera è notturna, la voce è corposa, le intenzioni sono drammatiche, nel rispetto dello stile “grazioso” di Cesti: ne sono, anzi, l’interpretazione non manierata.
“Il Nerone”, la prima delle sei eterogenee cantate registrate, non si limita a ritrarre e stigmatizzare la figura storica di un presunto tiranno e il suo presunto funesto operato. Non si tratta solo della condanna morale della tirannia come forma di governo. In realtà, questa cantata contrabbanda, ben celati sotto il telone mimetico del moralismo, due concetti basilari: il potere esercitato va difeso, e chi lo esercita si crea inevitabilmente dei nemici; il male è necessario, uccidere è necessario. Si potrebbe affermare che ogni uomo ha in sé la propria diabolicità, sia perché Lucifero, all’origine, è un angelo caduto, il perdente tra due forze inizialmente equivalenti e insomma il simbolo di un primato non già malvagio ma alternativo e divenuto, con la sua sconfitta, alieno. Per quanto riguarda la prestesa crudeltà di Nerone – per nulla inferiore a quella di un Tiberio, peraltro – ci si può rifare a due archetipi contrapposti: procurarsi il cibo e uccidere. Due operazioni faticose, di cui si finirebbe per fare a meno, se non se ne ricavasse un piacere profondo. L’obiezione per la quale mangiare è indispensabile, uccidere no, ci porta a scavare più a fondo per capire cosa si cela dietro quest’aberrante equazione: uccidere non è necessario, ma morire sì. Ovvio che in un sistema caratterizzato da una direzione mentale orientata al culto della vita e della sua difesa ad oltranza, questo concetto sia quantomeno scomodo. E nonostante si delinei, a ben guardare, il concetto che la morte altrui sia indispensabile, o utile, per la propria esistenza, ovviamente l’assassino è un “mostro”. Tuttavia, il concetto è vero, non sul piano individuale, ma sul piano del nostro sistema planetario, costantemente minacciato dai pericoli della sovrappopolazione (il cui contraltare inevitabile è il primordiale terrore della denatalità) e dell’esaurimento delle risorse disponibili. Semplificando, la vita umana è programmaticamente limitata, affinché le vecchie generazioni lascino spazio alle nuove; nell’ambito di questi limiti, ogni uomo è indotto a proteggere e difendere la propria esistenza con dei riflessi immediati e il desiderio di prolungarla al massimo, anche a costo d’un’avvilente decadenza. La vittoria collettiva sulla morte sarebbe, in realtà, una catastrofe, ma sarebbe pure una catastrofe un abbassamento collettivo della volontà di combattere la propria morte. Ecco perché, soluzione semplice e consona all’egopatia basilare del genere umano, la propria morte è un male, ma la morte altrui può essere un bene, e, eventualmente, va aiutata con l’omicidio. Aggiungerei che il carnefice deve odiare le sue vittime: la morte volontariamente inflitta non sarà mai rapida, asettica, anonima. La crudeltà emerge qui in una serie di rituali terrificanti, assume il carattere di un rito composto da programmatiche tappe successive (come risulta dai film e dalla letteratura hardcore) e in un certo senso è interpretabile alla stregua di una sacra rappresentazione diabolica. Quindi, finzione scenica, dramma, situazioni a tinte forti, sfida al rischio vissuta sulla propria pelle: questo è il Nerone che esce dalla cantata di Cesti. La chiusura moralistica del brano suona in parte di prammatica, in parte ironica: il poeta, affermando che “sul banco d’Astrea debito non si fa che non si paghi”, tende a giustificare la cattiva, immeritata fama postuma dell’imperatore romano – immeritata quanto quella di altri suoi “malvagi” predecessori e successori – ma mette in guardia, tra le righe, i giudici frettolosi, perché dopotutto, le apparenze, come si dice, ingannano, e la storia può rivelare sorprese inaspettate. Casagrande coglie bene il senso nascosto nel doppiofondo della cantata, deforma provocatoriamente la propria voce, che si fa, di volta in volta, incisiva, declamatoria, tagliente, stentorea, regalmente sdegnosa, diabolica, furente e selvaggia, ad affermare perentoriamente la figura di un imperatore solo nella sua quasi-onnipotenza, tradito da tutti, intorno, in virtù del suo intendere il proprio ruolo. Un potente beffardo, sprezzante e consapevole della portata dei suoi atti eversivi. Un potente che si prende crudelmente o brutalmente gioco del potere stesso, quando imbrigliato da ipocriti precetti di “buon governo”. Una figura paradossale e indifferente alle conseguenze del magnifico paradosso che incarna. Nerone non è certo passato all’immaginario collettivo solo per aver perseguitato, nella leggenda, qualche gruppo di proto-cristiani o aver fatto incendiare, senza che ce ne sia mai stata prova alcuna, anzi con prove del contrario, qualche quartiere dell’Urbe.
Musicalmente e dal punto di vista della tecnica vocale, questa cantata si può definire certamente virtuosistica, non solo per la difficoltà di ritrarre compiutamente una figura storica d’eccezione, ma perché si tratta di un concentrato di ogni genere d’agilità: legata, martellata, granita, staccata, di bravura o “di sbalzo”, di grazia, aspirata. In definitiva, esige dimestichezza con la tecnica del vocalizzo d’agilità. A dimostrazione del fatto che, con Cesti, la “glorificazione della vocalità”, come afferma Celletti, compie un notevole passo in avanti. Casagrande affronta vittoriosamente questo scoglio e anzi, riesce a far aderire le ardue figurazioni musicali al testo, ottenendo il risultato d’un’eloquenza rara. Le lievi discrepanze e qualche incrinatura quasi inavvertibile, qua e là, nella voce di Casagrande sono l’inevitabile portato d’un’interpretazione tanto intensa.
Chi non prova star lontano, versi d’autore finora ignoto, è una delle più piacevolmente scorrevoli melodie di Cesti, che musica un testo patetico-amoroso con grazia squisita. La struttura della cantata si avvicina a quella di una canzone con “da capo” variato. Di essenziali eleganza e pertinenza stilistica le variazioni di Luca Casagrande. La voce di Casagrande, quanto ne Il Nerone si piegava alle esigenze drammatiche di un vero e proprio monologo operistico, tanto, qui, sfodera un bel velluto baritonale, che assicura al brano tutta la cantabilità che esige. Inizialmente, l’intonazione tende ad essere leggermente crescente, ma la bellezza del colore dalla trasparenza dell’opale nobile, i bei chiaroscuri e un “da capo”, che potremmo definire rasente la perfezione, per intonazione, appunto, e sicurezza nelle improvvisazioni, fanno sì che il difetto iniziale faccia gioco alla resa dell’intera cantata.
“La Corte” è senza dubbio la più difficile tra le cantate di Cesti raccolte in questo lavoro, e per gl’interpreti, e per l’uditorio. Lunghi recitativi attraverso i quali si snoda un’incubo del poeta, sul far del mattino (“Era l’Alba vicina”). Immersa in una luce caravaggesca, un’opulenta dama invita il poeta a Corte. La Corte è la dama stessa, naturalmente, e le sue apparenti opulenza e raffinatezza, vorrebbero celare aspetti evidenti e a malapena sopportabili del vivere cortigiano – invidia, servilismo, corruzione, ambiguità, perversioni anche sessuali, intrighi, ipocrisie. È degno di nota quanto, di là dalla convenzionale condanna satirico-moralistica, traspaia quanto l’autore disprezzi profondamente ed autenticamente la letale noia che spinge i cortigiani alla frenetica ricerca di ogni sorta di compenso, quanto il suo disprezzo investa senza pietà la vacuità e l’inutilità del vivere a Corte, e i cortigiani stessi, deboli e compiaciuti. Lo stesso autentico disgusto che, alla fine degli Anni ’80 del Seicento, il grande Agostino Steffani, in procinto di lasciare per sempre i fasti e i nefasti della Corte di München, per il teatro pubblico di Hannover, esprimeva senza mezzi termini, in una lettera al fratello Ventura Terzago.
La linea vocale di questa cantata è frastagliata quanto, se non più, di quella de “Il Nerone”, e si spinge dagli estremi bassi a quelli acuti della gamma vocale raggiungendo l’estensione di due ottave piene (La1-La3). I lunghi recitativi si aprono all’improvviso in ariosi virtuosistici, in cui il vocalizzo, se non raggiunge l’incisività drammatica delle stesse figurazioni ne “Il Nerone”, propongono una dimensione tra il narrativo e il drammatico delle vicende oniriche del protagonista. Casagrande vivifica con un profluvio di appoggiature, variazioni e portamenti, e con continui cambi di colore vocale, una parte che, altrimenti risulterebbe inesorabile nella sua monotonia. Il baritono dà vigore ai vocalizzi, che canta per lo più in colore scuro, ma li rende esatti, oltre che corposi, nel pieno rispetto dell’eleganza richiesta da Cesti, e anzi arricchendola di elementi interpretativi drammatici e sanguigni. La voce, in tanto balzare dagli estremi bassi – non sempre perfetti, ma di un bello smalto di autentico basso, più che di baritono – a quelli acuti della gamma, rivela, astutamente camuffate, le lievi, inevitabili disuguaglianze che da sempre la caratterizzano. Questo può urtare il sensorio di ascoltatori in cerca della perfetta omogeneità, ma, d’altro canto, entusiasmare chi è interessato alla musicalità e all’espressività di una voce. La dizione, qui, come in tutte le cantate del cd, è chiarissima. Riguardo a questa cantata, sarà difficile, in futuro arrivare a fare di meglio e di più. Certo, potrà essere, forse, letta con una maggior cura dell’uguaglianza dei suoni, ma molto difficilmente interpretata, non a questi livelli. Personalmente, riteniamo questa di Casagrande un’interpretazione “di riferimento”.
“Insegnatemi a morire”, è la cantata forse più adatta al nostro orecchio, se ci si permette di semplificare, in quanto, pur essendo tutt’altro che facile, è caratterizzata da un efficace refrain che si ripete più volte, e da una melodia non proprio lineare, ma che rimane in testa. Si tratta di una cantata dai contenuti esplicitamente filosofici, ispirata alle istanze stoiche di gruppi vicini ad Apolloni (l’autore dei versi) e Cesti stesso, ed è, probabilmente, il brano meglio cantato e interpretato con maggior misura. Esemplari le lunghe messe di voce di Casagrande sulle invocazioni “Oh, Cieli”, “Oh! Numi!”, “Oh! Stelle!”. Sembra quasi che Casagrande qui abbia avuto in mente i versi di Henry Vaughan (1622-1695): “ Vidi l’Eternità, la scorse notte/simile a un grande anello di pura e sterminata luce/tutto calma e splendore./ Sotto ruotava il Tempo, in ore, giorni, anni/sospinto dalle sfere/come ombra immensa dove il mondo/si scaglia e ogni cosa con lui” (“The World”).
La stessa concezione filosofica si ritrova nella cantata successiva “Era la Notte e muto”, che ricalca in maniera piuttosto complessa i modi di una canzone strofica, con un testo dai contenuti apparentemente pastorali e amorosi. Qui la voce è davvero bella: piena, ombrosa, pastosa, ricrea perfettamente il clima notturno e patetico, sia nel recitativo iniziale che si trasforma a poco a poco in un arioso, sia nell’aria con “da capo”, caratterizzata dall’iterazione della frase “Sono Amante geloso! Ah! Non è poco!”, che è, di per se stessa un compendio di mezze tinte, effetti eco, colori pieni, improvvisazioni, variazioni, giochi agogici e dinamici di stupefacente varietà. Anche questa è da ritenersi un’interpretazione di riferimento.
E, finalmente, “Aspettate! Adesso canto”, cantata singolare a attualissima in cui Baldini e Cesti mettono in ridicolo senza mezzi termini, con corrosivo sarcasmo, la situazione in cui versava la produzione musicale del loro tempo (non molto differente dall’attuale). La dimensione stilistica di questa cantata è il grottesco, quale doveva essere in effetti la reale situazione del mercato musicale del tempo, caratterizzata dall’incessante richiesta di arie ed ariette da parte di una crassa committenza borghese, velleitaria e salottiera, insaziabile, per la quale era importante, nel corso di riunioni mondane, figurare con sempre nuove e sempre più vacue e ripetitive composizioni, estorte a compositori stremati, al tintinnio di non tanto grandi quantità di “moneta del reame”, peraltro. Casagrande non si preoccupa qui più di tanto delle esigenze del belcanto, pur improvvisando e diminuendo a dovere. Gl’interessa recitare il brano, acché non se ne perda mai il senso. Il carattere dell’interpretazione è scanzonato e brillante, il colore della voce è complessivamente chiaro, a tratti la voce stessa è parlante. Appartenente a pieno diritto alla categoria del grottesco l’intervento parodistico del contraltista André Gala Cusac, che imita uno scadente contraltista dilettante alle prese con il solito mediocre testo amoroso. La cantata è la chiusa ideale al CD.
Il libretto è documentatissimo, grazie ad un esaustivo saggio introduttivo di Luca Casagrande. A proposito di libretti-saggio, ribadiamo e precisiamo quanto scritto all’inizio di questa recensione: la Fono Enterprise ha fatto e fa un gran parlare della completezza dei libretti delle proprie pubblicazioni discografiche. Quisquilie, rispetto ai libretti dei CD di Casagrande. Leggere per credere. Copertina in b/n, con foto degli interpreti, inserti rossi e caratteri tecnologico-avveniristici, che hanno il pregio di contribuire a svecchiare, e ce n’è sempre bisogno, questi fondamentali lavori di recupero e riproposizione dei veri grandi autori italiani ingiustamente dimenticati. Lodevole.
Ilaria Daolio
Storia della letteratura e del teatro musicali
Istituto Monteceneri
Milano
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