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- Rassegna Stampa
- 21 Lug 2010
Nicola Antonio Giacinto Porpora (Niccolò) (Napoli, 17.VIII.1686 – 03.III.1768) è il più internazionale tra i compositori napoletani settecenteschi e le sue opere sono rappresentate con enorme successo in tutte le principali capitali europee. Il giovane Porpora, di famiglia benestante, studia a Napoli, frequentando per almeno dieci anni, dal 1696, il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, allievo di Gaetano Greco, e riceve una rigorosa educazione musicale e letteraria, di stampo secentesco, che comprende approfonditi studi di composizione, canto e pratica dell’accompagnamento. Esordisce nella Napoli governata dal Vicerè asburgico nel 1708, con il melodramma Agrippina, rappresentato a Palazzo Reale e al Teatro di S. Bartolomeo. Del 1711 è Flavio Anicio Olibrio, melodramma su libretto di Apostolo Zeno. Dal 1711 al 1725 Porpora è Maestro di Cappella del principe Filippo D’Assia-Darmstadt, che gli apre le porte dei teatri viennesi. S’incarica nel frattempo del ruolo di Maestro di Cappella dell’ambasciatore portoghese a Napoli, e insegna al Conservatorio di S. Onofrio. Nel 1712 fonda una scuola di canto destinata a vera gloria: ne usciranno cantori evirati della fama di Giuseppe Appiani, del Farinelli, del Caffarelli, del Porporino, di Felice Salimbeni, o soprani del calibro di Regina Valentini-Mingotti, diretta rivale di Faustina Bordoni-Hasse, e, più tardi, la celeberrima Caterina Gabrielli. Oltre alla fama europea, cui assurge come insegnante di canto, Porpora prosegue con l’attività d’operista, compositore ed insegnante di composizione (dà lezioni, tra l’altro, a Adolph Hasse): Basilio Re d’Oriente (1713), Arianna e Teseo, rappresentata a Vienna nel 1714, Berenice, regina d’Egitto ovvero Le gare di Amore e di politica, in collaborazione con Domenico Scarlatti (Roma, 1718), Temistocle, ancora su libretto di Zeno (Vienna, 1718). Dopo il Faramondo (Napoli, 1719), inizia a collaborare con il Metastasio, che, anche grazie a Porpora, assurgerà alla fama di principale poeta per musica del tempo, e ne musica i primi componimenti in versi: le cantate Angelica e Medoro (1720) e Gli Orti Esperidi (1721), cui seguiranno le cantate Galatea e Imeneo (Napoli, 1722 e 1723), e più avanti, oltre ad un buon numero di melodrammi di grande successo (Didone abbandonata, Siface, Siroe re di Persia, Ezio, Ermenegildo), le XII Cantate, dedicate “all’Altezza Reale di Frederico Prencepe Reale di Vallia e Prencepe Elettorale di Hannover” (Londra, 1735). Altri importanti librettisti scrivono per Porpora: Silvio Stampiglia e Paolo Rolli tra i più conosciuti. Tra il 1726 e il 1733 Porpora è a Venezia, dove coglie altri successi, ad esempio con la Semiramide riconosciuta (ancora su libretto del Metastasio, 1729). Chiamato a Londra, all’Opera of the Nobility, a capo di un’importante compagnia di cantanti (non dimentichiamolo, i veri protagonisti della vita musicale del XVIII secolo), tra i quali il Senesino, il Farinelli, il grande soprano Francesca Cuzzoni, la più importante tra le star femminili del periodo e una delle principali interpreti del teatro di Georg Friedrich Händel, allora direttore della Royal Academy, Porpora è, appunto, contrapposto a questi, quale rappresentante del melodramma italiano. Il periodo londinese di Porpora è quello della sua maggiore fama: titoli come Ariadne in Naxus (1733), Enea nel Lazio (1734), Polifemo e Ifigenia in Aulide (1735), tutte su libretto di Rolli, gli assicurano il successo internazionale. Porpora ritorna in Italia nel 1737, alle prime avvisaglie di sfavore del pubblico nei confronti del teatro e dello stile da lui proposto: è a Venezia, Roma e di nuovo a Napoli nel 1738. Qui compone per il Teatro di S. Carlo, il Teatro Nuovo e il Teatro dei Fiorentini, che gli commissionano due opere buffe: Il Barone di Zampano e L’amico fedele, entrambe del 1739. Contemporaneamente riprende l’attività didattica e, dopo, dirige il Coro dell’Ospedaletto dei SS. Giovanni e Paolo, a Venezia (1742). Al seguito dell’Ambasciatore veneziano è poi a Vienna e a Dresda, tra il 1745 e il 1747, come insegnante di canto. Nella città tedesca, nel 1748, è nominato Kapellmeister. E’ a questo punto della carriera che Porpora sceglie di non cimentarsi più nel genere del melodramma, preferendo dedicarsi alla musica da camera: celebri le Sonate XII di violino e basso, del 1754, edite a Vienna. Nello stesso periodo il maestro napoletano torna a comporre musica sacra, tra cui spiccano i due Te Deum del 1756 e ’57. Di nuovo nella capitale asburgica dal 1751, è maestro del giovane Joseph Haydn, che scrive: “In quel tempo feci conoscenza del famoso Porpora, direttore d’orchestra, le cui lezioni erano ricercate avidamente e che, a causa dell’età, desiderava un giovane aiuto, che trovò nella mia persona”. Inoltre, ha allievi di grande prestigio, tra i quali la moglie dell’ambasciatore veneziano Pietro Correr e la protetta del Metastasio, Marianna Martinez.
La sconfitta della Sassonia nella Guerra dei Sette Anni avrà pesanti conseguenze sulla carriera e le finanze di Porpora, che, privato d’appoggi e pensione, dovrà, nel 1760, rientrare a Napoli in via definitiva, e, purtroppo, senza più il successo arrisogli fino a meno di un decennio prima. La ripresa de Il trionfo di Camilla, melodramma su libretto di Stampiglia, già rappresentato in città nel 1740, si risolve in un insuccesso. Porpora scomparirà circa sette anni più tardi. Del suo ultimo periodo si ricordano l’Ouverture royale in re maggiore e la Cantata in onore di S. Gennaro, del 1765.
La sensibilità estetica di Porpora è caratterizzata dalla capacità di esprimere in musica un erotismo intenso, ma addolcito e suadente, dalle grandi possibilità di fascinazione. Questa sensibilità è corretta, talvolta, da un certo grado di sentimentalismo e sensualità epidermica, da un edonismo alla ricerca costante del “bel suono”. Questo, ma non solo, emerge, come spesso succede con i compositori sei-settecenteschi, non tanto dai suoi melodrammi, alcuni (ancora troppo pochi) recuperati negli ultimi decenni, sottoforma di registrazioni discografiche, quanto dalle sue cantate, talune davvero preziose, su testi del Metastasio, come ad esempio Il tabacco, del 1735, e dalla musica strumentale: le Sinfonie da camera del 1736 e le succitate Sonate XII di violino e basso.
La produzione di Porpora è copiosa: cinquanta melodrammi, una decina d’oratori, centinaia di cantate, sei messe e circa cinquanta mottetti, VI Sonate à tre, VI Sonate per due violini e due violoncelli, e molto altro. Il valore della sua opera, tuttavia, già nella seconda metà del Settecento, non è più apprezzato. “A Napoli sono ormai conosciute le opere di Christoph Willibald Gluck e di Johann Christian Bach. La politica regia, che vuol fare del S. Carlo un luogo europeo, mira non tanto ad ‘esportare’ musicisti lanciati sulle scene locali ma a rappresentare esempi della cultura musicale in voga, che si forma all’estero, assimilato ormai lo stile italiano” (P. M. Carrer). Nel corso dell’ultimo secolo, seppur con estrema lentezza, studiosi come Rolland, Leinchtenritt, Moser, Schenk e Degrada hanno contribuito molto ad una piena rivalutazione dell’esperienza culturale di Porpora e della sua produzione musicale. Abilissimo inventore di melodie vocali, soprattutto quando il testo suggerisce un’ambientazione lirica e sensuale, Porpora contribuisce in misura decisiva al trionfo dei valori del canto. Quella di Porpora, insomma, riconosciuta o no, rimane musica assolutamente pregevole e sul piano dell’eleganza formale, e su quello della ricchezza delle parti vocali. Fin dagli Anni Venti del Settecento, Porpora accoglie a braccia aperte la nascente poetica arcadica, il suo stile si allinea “con lo stile del melodramma di Mancini, di Sarro, di Feo: influenzato indubbiamente dalla scelta dei testi”, Porpora supera “gradualmente il più compassato ed edonistico carattere dell’opera eroica tardo-barocca, mostrando una maggiore duttilità di scrittura, una più ricercata sensibilità melodica, una cura del recitativo (che confina spesso con l’arioso) e del declamato drammatico che rimarranno costanti caratteristiche della sua intera produzione vocale” (P. M. Carrer). Una costante, appunto, del suo stile è “l’espertissima trattazione delle parti vocali, sempre tendenti ad esaurirsi nelle voci acute: il privilegio dato al virtuosismo canoro” (P. M. Carrer) è diretta conseguenza dell’essere egli insegnante di ‘belcanto’ e si arricchisce nel corso di decenni di nuove sollecitazioni provenienti e dalla musica strumentale, e da voci che gli offrono la possibilità di esprimersi al meglio, in questa direzione. Ad esempio, in Enea nel Lazio, il ruolo di Enea, affidato al Farinelli, offre un esempio di “sapientissima disposizione espressiva degli elementi del repertorio vocale: scale discendenti e ascendenti ritardano la pronuncia delle consonanti finali delle parole, trilli, gorgheggi, cromatismi a piccoli valori, varie combinazioni delle fioriture scritte producono un’efficace effusione lirica. Nella scrittura vocale Porpora si dimostra insegnante di notevole intelligenza: egli tende a non forzare l’estensione naturale delle voci, ricercando sempre un equilibrio, relativo naturalmente all’eccezionalità dei mezzi a sua disposizione” (P. M. Carrer). Tutto ciò si ritrova anche nelle cantate qui presentate (i cui manoscritti sono conservati presso la biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, Napoli): stretta aderenza della musica al testo poetico, di schietto sapore arcadico, stile recitativo usato in tutte le sue sfumature, dal recitativo secco, al declamato drammatico, al recitativo arioso, il basso continuo che non si limita ad accompagnare, ma è parte contrastante, e momento inscindibile di dialogo. Emerge l’abile scrittura del violoncello (da ricordare che gran parte della produzione strumentale di Porpora, manoscritta o stampata, è destinata proprio al violoncello). La voce è sempre trattata in senso espressivo, la linea vocale è strettamente legata al testo, senza le esasperazioni melismatiche tipiche del melodramma.
Il virtuosismo vocale di Porpora, soprattutto operista, lo ribadiamo, “è da porre in stretto rapporto con le eccezionali capacità dei suoi allievi e d’altri famosi interpreti; la scrittura è una rassegna di schemi di grande difficoltà, nonché d’indicazioni stilistiche. Nei Larghi e negli Andanti, Porpora si attiene alla regola, poi divenuta universale, di mantenere la voce nella zona centrale. La melodia inizia ornata (gruppetti in extenso, trilli, mordenti), procede molto legata, verso la metà della prima sezione acquisisce brevi passaggi vocalizzati, punteggiati, di solito, da molti trilli. La seconda sezione muta tempo e ritmo. Un Lento in tempo ordinario può diventare, ad esempio, un Andante in 3/8. In questa seconda sezione lo stile è sillabico e l’ornamentazione si riduce a qualche acciaccatura e a qualche trillo. Le variazioni del ‘da capo’ sono lasciate al cantante” (R. Celletti). Quanto appena esposto si evidenzia chiaramente anche nelle arie di carattere patetico delle cantate qui presentate. Quanto alle variazioni nei “da capo”, ma non solo lì, in questo lavoro, sono limitate all’introduzione di poche appoggiature e di gruppetti molto stretti. Si è, invece, preferito puntare su cambiamenti nel ritmo e nella durata delle note, o sulla variazione della linea melodica dei passi vocalizzati. “Come segni d’espressione, Porpora usa frequentemente le indicazioni di p e di f. Codifica, inoltre, la ‘messa di voce’ iniziale. Sulla prima nota del Lento Alto Giove del Polifemo (parte di Acis composta per il Farinelli), Porpora annota un segno di corona. Significa che il cantante deve eseguire una ‘messa di voce’ completa e cioè attaccare il suono pianissimo, ampliarlo gradualmente portandolo ad un fortissimo e poi altrettanto gradualmente smorzarlo; subito dopo, e senza riprendere fiato, bisogna eseguire la prima frase” (R. Celletti). L’uso, probabilmente introdotto dagli allievi di Porpora, si applicherà in seguito largamente, anche in mancanza d’indicazioni da parte del compositore. Nelle cantate qui registrate non ci sono indicazioni relative alla “messa di voce”, che, in ogni caso, nel corso del Settecento, assume una grande importanza: è considerata la dimostrazione della morbidezza, della durata di fiato, della potenza del cantante.
“Nei tempi mossi Porpora ricorre a lunghi passaggi vocalizzati in cui le successioni di quartine o di gruppi irregolari sono costellate di trilli oppure interrotte da sbalzi in ascesa, in discesa e da reiterate scalette ascendenti e discendenti (v. le cantate qui registrate Quanto s’inganna, oh quanto, Tu ten vai così fastoso e la prima aria di Alla caccia dell’alme e dei cori. N.d.R.). Abbastanza frequenti le acciaccature semplici e doppie, i mordenti, i gruppetti in extenso” (R. Celletti).
Fondamentale nell’attività di Porpora, e importante nel definire e affermare il suo stile e sancire il suo successo, è una serie di librettisti di rango, tra i quali emerge il Metastasio.
Metastasio, pseudonimo di Pietro Trapassi (Roma, 3.I.1698 – Vienna, 12.IV.1782) risolve in poesia elegante ed intensamente musicale quanto in Apostolo Zeno resta a livello teorico. Metastasio è il genio della semplificazione. In una situazione che deve essere dominata dalla musica, egli riduce al minimo il numero dei personaggi dei suoi libretti (raramente se ne vedono in scena più di due contemporaneamente), rende agile e scattante l’azione, non introduce diversificazioni se non strettamente necessarie, usa poche parole essenziali per i recitativi, evita i giri di frase e, infine, sfoga nelle arie la sensibilità di un arcade, maestro assoluto della sensiblerie languorosa, “sentimentale” che a noi, oggi, pare fosse nel gusto del tempo, e che il poeta stesso sembrerebbe contribuire ad imporre. Accusato, fino a pochi decenni fa, di poca profondità, di scarso sentire, d’incapacità di forti passioni, è tale, in realtà, solo per gli idealisti, fautori del dramma musicale in polemica antimelodrammatica. In realtà, tutti i melodrammi che si avvalgono di libretti del Metastasio, sono caratterizzati da un forte intreccio e un’abile costruzione scenica. Il poeta scrive ventisette libretti per melodrammi, fino al 1740 circa: a parte i già citati libretti degli esordi con Porpora, da ricordare Didone abbandonata (1724), Siroe (1726), Catone in Utica (1727), Semiramide riconosciuta (1729), Artaserse (1730). Nel 1730 l’imperatore Carlo VI lo chiama a Vienna, permettendogli di vivere un decennio di grande creatività e di raggiungere l’apice della fama di poeta. Con l’avvento al trono dell’imperatrice Maria Teresa, Metastasio si dedica prevalentemente alla versificazione di cantate ed oratori. Pochi i melodrammi: l’ultimo sarà il Ruggiero, per Hasse (1771). Come Porpora, Metastasio si spegnerà da sopravvissuto al proprio tempo, emblema di un’epoca così bene rappresentata nella sua aspirazione alla magnificenza e alla “meraviglia”.
Il Farinelli è il maggiore tra i cantanti formati alla scuola di Porpora. Carlo Broschi, o Brioschi, (Andria, 1705 – Bologna, 1782), soprannominato Farinelli o Farinello, sembrerebbe dal nome della famiglia dei suoi protettori, i Farina di Napoli, è avviato alla musica dal padre, Salvatore Brosco, che si ritiene fosse governatore reale, e al tempo stesso compositore e musicista per diletto. Pare che l’evirazione del figlio Carlo non si sia dovuta a fanatismo paterno, quanto ad un problema fisico del ragazzo. Il Farinelli debutta nella cantata del maestro Angelica e Medoro, su libretto del Metastasio. Il poeta scriverà in seguito in una dedica al Farinelli: “Appresero gemelli a sciorre il volo la tua voce in Parnaso e il mio pensiero”. L’amicizia tra Farinelli e Metastasio, molto sentita, produce un famoso epistolario, prezioso per la conoscenza dell’epoca, e naturalmente delle figure del librettista e del cantante. Farinelli raggiunge in poco tempo una notorietà eccezionale. Appena diciassettenne, si ritrova a gareggiare, a Roma, con un famoso suonatore di tromba. L’arte del Farinelli è sorretta da una profonda conoscenza della musica, ciò che gli permette una particolare perizia nell’improvvisazione, e da una voce molto estesa, dal timbro dolce e flautato, ma molto potente. Verso i trent’anni lo stile del cantante assurge a maturità, al punto da assicurargli autentica gloria e la commozione e l’ammirazione stupefatta dell’uditorio e dei colleghi. I rapporti con il Metastasio gli aprono le porte dei teatri viennesi. Seguono i trionfi londinesi. Entrato al servizio della corte di Spagna, oltre ad occuparsi dell’allestimento di spettacoli e di cantare in esclusiva prima per Filippo V, poi per Ferdinando VI, ottiene anche mansioni di consigliere privato delle loro maestà. Quando Carlo III sale al trono iberico, la stella del Farinelli tramonta piuttosto repentinamente. Il cantante, pur fornito dai reali spagnoli di una cospicua pensione, è costretto a rientrare in Italia. Si stabilisce a Parma, poi a Bologna, dal 1761. Finirà i suoi giorni nello stesso anno della scomparsa del Metastasio.
Dunque, “la vocalità italiana tocca, nel Settecento, il massimo splendore, sotto la duplice azione di grandi compositori e librettisti e di grandi cantanti e docenti. Nel periodo che va da Alessandro Scarlatti e Antonio Lotti a Porpora, Händel, Hasse, G. Bononcini, Vinci, melodie più ampie e spiegate di quelle del Seicento – e più varie nei ritmi – determinano negli interpreti un accentuato impulso all’espressività. Ma anche il recitativo, pur rimanendo in posizione subordinata rispetto al pezzo chiuso, assume forme che, agli schemi semplicistici e ripetitivi dello stile denominato ‘secco’, alterna movenze più elaborate ed aperture cantabili, sostenute dalla piena orchestra (nel melodramma. N. d. R.) e a volte ad anticipare o ad integrare la funzione dell’aria e del duetto nella configurazione dei sentimenti” (R. Celletti). Si torna, a questo proposito, sulle vecchie polemiche anti-melodrammatiche che ritengono il melodramma settecentesco “un monotono avvicendarsi di recitativi secchi e di pezzi chiusi. Al contrario, la prima metà del Settecento resta, nell’ambito del melodramma cosiddetto belcantistico (e, ovviamente, anzi maggiormente, sul terreno della cantata. N. d. R.), un periodo a sé stante, e mai più ripetutosi, per l’eccezionale coincidenza fra lo sviluppo della tecnica virtuosistica e le capacità espressive degli esecutori. Si amplia la gamma d’estensione di tutte le voci (ma in particolare delle voci bianche: castrati e donne) e questo si ripercuote anche sull’inventiva degli operisti e sull’arco melodico dei pezzi chiusi. L’ornamentazione e i passaggi vocalizzati scritti dai compositori si svincolano dalle formule un po’ troppo geometriche del Seicento, oppure legate, secondo un uso che risale ai madrigalisti, a un descrittivismo che si rifà meccanicamente al significato letterale della parola messa in musica per far salire o discendere – oppure trillare – la voce. All’opposto, il descrittivismo del Settecento si rifà piuttosto al senso generale della frase e, con Scarlatti, comincia a far coincidere la fiorettatura, l’ornamentazione e il gorgheggio anche con articoli, con congiunzioni, con avverbi e non soltanto con parole poetiche o auliche. Anche questo dà respiro alla melodia, la rende più fluida e aerea e, a seconda dei casi, più elegante, più tenera o più brillante. In definitiva, la scrittura melismatica della prima metà del Settecento sembra portare alle estreme conseguenze il principio barocco della ‘poetica della meraviglia’. Nel senso che la natura non è soltanto riprodotta e imitata nei suoi aspetti più fantastici, ma se possibile emulata e superata. Ma sono anche i progressi della tecnica strumentale a lanciare i compositori e i cantanti verso traguardi sempre più ardui. Vengono escogitati nuovi usi dell’ornamentazione – è il periodo in cui il trillo, principe degli ornamenti settecenteschi è praticato nelle otto diverse forme descritte da Pierfrancesco Tosi nelle Opinioni (1723) – e, nelle arie con strumento concertante, è reso sempre più movimentato e complesso il confronto fra cantante e suonatore. Un confronto, tra l’altro, i cui termini, presumibilmente, variano, nel Settecento, anche per quanto riguarda l’intensità dei suoni. È all’inizio del secolo, infatti, che la scuola vocale italiana, sembra sull’esempio del contraltista Antonio Maria Bernacchi, comincia a prediligere l’emissione che in gergo è detta ‘di petto’ e che si risolve in suoni ampi, intensi, voluminosi. Ora, è molto arduo determinare entro quali limiti fosse allora praticata la fonazione detta ‘di petto’, anche perché è notorio che, con questa emissione, la voce non può salire oltre certe note, e deve quindi mutare di registro e passare all’emissione detta ‘di testa’ (per le voci di castrato e di donna. N d. R.). Presumibilmente, comunque, alcuni castrati del primo Settecento (il Bernacchi, appunto e, dopo di lui, il Farinelli, il Carestini e altri) praticano una fonazione ‘mista’, che consente loro di cantare a voce piena, anche se nel suono concorre, specialmente in alto, il registro ‘di testa’. Nel confronto, il suono dei predecessori è più flebile e sottile o, potremmo dire, più ‘falsettistico’, anche se non è credibile che i cantanti del Seicento si limitassero a suoni esigui e poveri di timbro (come quelli proposti oggi dai falsettisti e dai sedicenti ‘specialisti’: ugole grame, che emettono suoni fissi, ‘aperti’, antimusicali, che nel migliore dei casi rappresentano un clamoroso falso storico. N. d. R.). Vien fatto piuttosto di pensare che, specialmente nel canto di agilità, essi si attenessero a una sonorità relativamente ridotta. In ogni caso, l’emissione più ampia e intensa prodotta dal Bernacchi porta a risultati veramente cospicui” (R. Celletti): nelle arie marziali, in quelle di sdegno, di tempesta, di disperazione, i melismi, ora vigorosi, fanno sì che nasca e si affermi vieppiù l’agilità ‘di bravura’ o ‘di forza’ o ‘di sbalzo’, da eseguirsi a voce piena, e anche in casi diversi da quelli delle arie bellicose, agilità che troverà il suo definitivo assertore e codificatore in Gioacchino Rossini, molto più tardi. Insomma, la nuova sonorità dà risalto espressivo all’accento, alla dizione, al vigore espressivo. “Con questo, però, i grandi cantanti della prima metà del Settecento non perdono affatto la capacità di assottigliare e modulare i suoni. Proprio Bernacchi, e con lui Faustina Bordoni-Hasse, contralto (in realtà, mezzosoprano piuttosto acuto e d’agilità spiccata. N. d. R.), introduce un canto che si basa su una fiorettatura molto fitta, eseguita con leggerezza ed eleganza, e su fulminee ribattiture, veloci serie di trilli e simili (lo stesso stile, che informa anche le cantate di Porpora del presente lavoro discografico. N. d. R.). In questo clima, nel primo Settecento, trionfa la grande aria tripartita con il “da capo” variato e una cadenza per ognuna delle tre sezioni (ciò che, per una strana forma d’allergia ai melismi, oggi, i soliti sedicenti interpreti del canto settecentesco e barocco in genere, tendono a ignorare, quando non a negare tout court, spalleggiati da direttori e maestri, che nulla hanno a che vedere con il Barocco, pur pretendendo d’occuparsene. N. d. R.). Questo tipo di pezzo chiuso per la sua ampiezza di struttura e per le difficoltà espressive e virtuosistiche che presenta, funge da banco di prova per i cantanti ed è al centro dell’opera italiana (e della cantata. N. d. R.) di gran parte del Settecento, di cui costituisce il momento più tipico.
La corda espressiva trova le manifestazioni più esplicite nelle arie in tempo lento, generalmente parche di melismi (quasi tutte le arie delle cantate Ninfe e pastor, T’intendo, sì, mio cor e Siedi, Amarilli mia, oltre alla seconda aria di Alla caccia dell’alme e de’cori. Peraltro, le arie in tempo lento di queste cantate sono spesso arricchite da veloci scalette ascendenti, agilità ‘di grazia’ o ‘di maniera’, gruppi di terzine, brevi vocalizzi, e un buon numero d’appoggiature. N. d. R.). Il genere patetico è familiare ai cantanti della prima metà del Settecento tanto quanto il genere brillante e virtuosistico” (R. Celletti). Il Farinelli, come visto sopra, con tre ottave d’estensione e una tecnica superba, probabilmente il maggior vocalista d’ogni tempo, emerge ad esempio sia nel canto patetico, sia in quello acrobatico, sia in quello grazioso. La scuola di canto italiana non esprime però il proprio meglio solo con il Farinelli, ma, per citare altri grandi nomi, anche con Giovanni Carestini, in grado di rivaleggiare con il Farinelli, con Gioacchino Conti, detto il Giziello, dalla voce estesissima e insuperato nel canto tenero ed elegiaco, per cui Händel compone arie che toccano il do5, Niccolò Grimaldi e Francesco Bernardi, detto il Senesino, il punto di forza dei quali è la vocalità ampia e solenne. Accanto ai castrati, i soprani, assurti in molti casi a vera grandezza. Francesca Cuzzoni, ad esempio, è, per la sua espressività, la protagonista di molte opere londinesi di Händel, Porpora, Bononcini jr., il primo soprano portato a cantare su tessiture realmente acute, il prototipo del soprano ottocentesco. Sopranisti, contraltisti e contralti “en travesti” ricoprono i ruoli di protagonista maschile dei melodrammi del tempo. Soprani e contralti donna, quelli femminili.
Discorso a parte per le voci maschili.
Premessa: le presenti cantate, destinate in origine a sopranista o contraltista, sono state adattate al registro baritonale, in virtù della prassi della trasposizione, consolidata ai tempi quanto oggi, che investe tutta la musica vocale da camera. Si è spesso affermato, e si afferma, in linea teorica e generale, che le voci di tenore, tenore baritonale, basso, basso baritonale e baritono, sono considerate, nel Seicento e nel Settecento, realistiche, quindi poco o punto adatte alle astrazioni “belcanto”, poco utilizzate, e anche poco gradite da parte del pubblico dell’epoca, per esempio da quello londinese. La realtà dei fatti è più complessa. E’ vero che i registri vocali succitati sono utilizzati, nel Seicento e nel Settecento, in ruoli comici e grotteschi. Ma questo non esaurisce per nulla la gamma d’utilizzo delle voci maschili nella musica vocale dei due secoli. Anzi. Il confronto con la quantità di ruoli e cantate che si compongono nel periodo per le voci di donna e di castrato non regge, è chiaro, ma ritenere le voci maschili confinate al comico e al grottesco sarebbe un errore grossolano.
Per limitarci al periodo aureo del belcantismo, e a poco prima: i ruoli di Eurillo e Armindo, tenore e tenore baritonale, ne Gli equivoci nel sembiante (1679) di Alessandro Scarlatti, sono ruoli pastorali e d’amoroso, patetici ed elegiaci. Lo stesso dicasi del ruolo di Rosanno, tenore, nell’Honestà negli amori (1680). Sempre in Scarlatti: Corrado, Principe di Puglia, nella Griselda (1721), è il confidente della protagonista, e a sua volta protagonista di virtuosismi spericolati e melismi mozzafiato. Oppure, nell’Anacreonte, in cui il tenore, nel ruolo del titolo, incarna la figura di un tiranno. Tenore è anche Riccardo, protagonista, nella parte dell’amoroso libertino destinato a pentirsi, de Il trionfo dell’onore (1718). Per quanto riguarda il basso, Scarlatti gli affida sistematicamente parti serie, spesso con una tessitura baritonale (vedi Anassacro, sempre nell’Anacreonte). Che dire poi delle grandi cantate per basso, più o meno baritonale, con e senza strumenti concertanti?
Agostino Steffani riserva al baritono tre importanti ruoli seri, tra il 1681 e il 1688: Marco Aurelio, nell’opera omonima, Pisone in Alarico, Poliferno nella Niobe. Grandi ruoli tragici, drammatici o amorosi riserva al tenore, più o meno baritonale: ad esempio, Stilicone in Alarico (1687), Giasone ne Le rivali concordi (1692), Enea ne Il Turno (1709). Al basso, Steffani riserva, fin dall’inizio della sua attività qualche ruolo comico, ma molto più spesso ruoli seri, impegnativi e ricchi di melismi e difficoltà tecniche: Antonino Pio nel già citato Marco Aurelio, Clito ne Lo zelo di Leonato (1691), e molti altri. Inoltre, il compositore castellano scrive svariate decine di cantate amorose per basso, basso e soprano, baritono e contralto, tenore e soprano. Colpiscono, in Steffani, l’abilità e l’eleganza con cui voci virtualmente pesanti come, appunto, quelle del tenore baritonale, del baritono e del basso, sono portate ad eseguire arie di genere grazioso e tenero, attraverso l’uso d’un’emissione lieve, in grado di affrontare e sostenere passi melismatici piuttosto ricchi in tessiture anche piuttosto elevate, per l’epoca.
G. Bononcini compone nella sua Griselda (1722) il ruolo di Rambaldo, basso, caratterizzato da arie virtuosistiche, in cui il cantante è chiamato spesso ad eseguire rapide scale ascendenti in successione. Anche Vinci e Hasse utilizzano tenore e basso in parti serie, caratterizzate da melodie incisive, veementi e vigorose, con grandi sbalzi, successioni di trilli brevi, note staccate. Hasse scrive così per Ottavio Albuzzi il ruolo d’Arcano nella sua Semiramide (1744), e quello di Segeste nell’Arminio (versione di Dresda, 1745), per Angelo Amorevoli, il più virtuosistico tenore baritonale della prima metà del Settecento.
Di Porpora ricordiamo la cantata a due voci, archi e basso continuo Calcante ed Achille, per tenore e sopranista, in cui Calcante è portato a cantare in tessitura anche molto acuta e ad affrontare virtuosismi consistenti soprattutto in scalette discendenti ripetute di seguito per molte misure, quindi ad un’accentuata agilità.
Händel, infine, comincia con il destinare ad una voce di basso, probabilmente quella di Antonio Francesco Carli, eccezionale per estensione (dal do1 al la3), alcune delle sue più indicative ed impressionanti cantate italiane. Una per tutte: Nell’africane selve. Al tenore sono destinati i ruoli acuti e brillanti di Osmano nell’Almira (Amburgo, 1705) e di Giuliano nel Rodrigo (Firenze, 1707). Al basso e baritono Giuseppe Maria Boschi, sono riservati ruoli di forza ed aulici che si esprimono, ad esempio, con vocalizzi d’andamento arpeggiato o canto ‘di sbalzo’, intervalli d’ottava o addirittura distanze d’undecima, in ascesa e in discesa. Ciò appartiene già da tempo alla vocalità italiana, a Monteverdi, al Cavalli, a Cesti (che è cantante, oltre che compositore: prima tenore, poi baritono, infine basso, e scrive ed interpreta ruoli e cantate di stile grazioso, ma anche drammatico, di un virtuosismo molto avanzato), a Legrenzi e Cazzati, a Giovanni Maria Bononcini (la sua cantata Valeriano in carcere, per voce basso e basso continuo, è una lunga composizione di virtuosismo equilibrato, ma estremamente impegnativo, e lo stesso dicasi per gran parte delle cantate per basso dell’Op. X), ad Alessandro Stradella (di cui vorremmo citare qui solo la scrittura impossibile, per virtuosismo, della cantata morale per basso baritonale, La saetta). Tutti questi compositori riservano tuttavia alle voci maschili anche una scrittura lieve e melismatica, in frequenti ruoli melodrammatici d’amoroso e in cantate del medesimo argomento. Ciò è ripreso, appunto, da Händel. Boschi è il più tipico basso e baritono händeliano, dall’Agrippina (Venezia, 1709) al Tolomeo (Londra, 1728), sia nelle vesti d’interprete aggressivo e violento, sia di virtuoso. L’altra grande voce maschile händeliana è quella del basso-baritono Antonio Montagnana. Voce robusta, ma flessibile ed agile, capace di consistenti alleggerimenti e di affrontare lo stile grazioso (vedi il ruolo di Varo nell’Ezio, Londra, 1731).
Per il tenore Händel scriverà le grandi parti di Bajazete, nel Tamerlano (1724), e di Berengario nel Lotario (1729), quasi a compensare l’assenza spesso, nelle sue opere, di questo registro vocale. Il ruolo di Bajazete è ricoperto da Francesco Borosini, in pratica un baritono (Fux scrive per lui in chiave di basso). Bajazete è un personaggio insieme epicheggiante e di padre nobile, e per Borosini Händel codifica il canto ‘di sbalzo’ e melismatico arpeggiato che caratterizzerà la vocalità del tenore di forza fino agli inizi dell’Ottocento. Annibale Pio Fabri, il maggior tenore italiano del tempo, è invece Berengario: tessitura acuta, passi virtuosistici con trilli, note staccate, ribattute di gola inserite in passi di canto ‘di sbalzo’, lunghi vocalizzi, in pratica tutte le figurazioni della scuola italiana poste in atto dal Farinelli e dal Carestini. Vale a dire gli schemi della scuola di canto di Porpora. Modelli, dunque, questi, che si applicano anche alle voci maschili più o meno gravi, portate a cantare sia in stile acrobatico di forza (ritenuto dai belcantisti il più arduo), sia in stile grazioso, e sottolineiamo: allo stesso modo delle voci dei castrati e di quelle femminili.
Nel secondo Settecento le voci maschili, in particolare i registri di baritono e basso, saranno trascurate, per essere rivalutate appieno solo da Wolfgang Amadeus Mozart e dalla sua volontà di creare personaggi: in lui i due registri (riassunti in quello di basso) troveranno un’elaborazione di straordinarie ampiezza e complessità, in senso realistico. I tempi in cui i compositori, principalmente attraverso la vocalità, vogliono configurare in astratto un sentimento, sono definitivamente tramontati.
Ilaria Daolio
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